HANDICAP E PSICOLOGIA

La psicologia ha contribuito a proporre una visione ampia dell’handicap, comprensiva della sua connotazione biologica e sociale, che fornisce una immagine dell’individuo nella sua totalità, nell’interazione complessa tra le componenti integre e quelle deficitarie, nelle dinamiche psicologiche caratteristiche di alcune situazioni e di alcuni contesti (Zanobini, Usai, 1998). L’individuo portatore di handicap è innanzitutto una persona, che possiede, tra le innumerevoli componenti della sua personalità e del suo corpo, delle peculiarità, che possono avere conseguenze negative più o meno importanti, strettamente dipendenti dall’ambiente socio-economico-culturale e familiare in cui vive.

Già, perché il grado di handicap di una persona non è legato solo dall’entità del danno fisico o mentale: esso è in gran parte un fenomeno sociale.

Nel 1980 l’Organizzazione Mondiale della Sanità, (OMS) ha diffuso l’ICIDH (International Classification of Impairment, Disabilities and Handicaps), che distingue una situazione intrinseca dovuta a malattia, infortunio o malformazione, da altre situazioni, quella esteriorizzata (menomazione), quella oggettivizzata (disabilità), quella socializzata (handicap).
La condizione di menomazione è data dalla perdita o anormalità che può essere transitoria o permanente. Le menomazioni, esteriorizzazioni di stati patologici, si suddividono in motorie, uditive, visive e organiche e sono sempre presenti, a prescindere dall’attività svolta da un soggetto in un determinato momento, mentre le disabilità si manifestano quando è necessario compiere prestazioni specifiche e sono descritte come restrizioni o carenze (conseguenti ad una menomazione), nella capacità di svolgere un’attività o un comportamento nel modo o nei limiti ritenuti normali per una persona. L’handicap è descritto, come accennato, come un fenomeno sociale, in quanto legato alle conseguenze sociali e ambientali di una disabilità: una situazione di svantaggio vissuta da una determinata persona che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio di quella persona in relazione ad età, sesso e fattori socioculturali.

L’handicap è caratterizzato dalla discrepanza tra l’efficienza-stato del soggetto e le aspettative di efficienza e di stato sia del soggetto che del particolare gruppo di cui fa parte.

La classificazione dell’handicap fatta nell’ICIDH si basa su situazioni reali e si riferisce alle funzioni di orientamento, indipendenza fisica, mobilità, occupazione, integrazione sociale, autosufficienza economica.
Con l’ICIDH-2, nel 1997, l’OMS pone un accento maggiore sull’influenza dei fattori ambientali e personali sulla patologia, fino ad arrivare all’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health), strumento di classificazione innovativo, che è stato accettato da quasi 200 Paesi come lo standard internazionale per misurare e classificare salute e disabilità. La novità sostanziale dell’ICF consiste nella metodologia d’approccio alla salute, non più centrata sulla menomazione o sul deficit, come faceva l’ICIDH, ma sul risultato finale posto come obiettivo del processo riabilitativo e di cura che deve tener conto della globalità del soggetto (unità di funzioni e strutture corporee, capacità di compiere attività quotidiane e il coinvolgimento sociale) e dell’ambiente in cui esso vive.
Il concetto rivoluzionario dell’ICF, rispetto all’accezione classica di diagnosi e terapia, ha introdotto una nuova mentalità di osservazione del paziente, non più statica e cristallizzata nella sola rilevazione del segno clinico, bensì nella sua estrinsecazione funzionale e di vita quotidiana.
Dunque, nella valutazione, l’ICF (2001) tiene conto di fattori contestuali ambientali (norme sociali, ambiente culturale, naturale e costruito, fattori politici, istituzioni, ecc.) e della persona (genere, età, condizioni di salute, capacità di adattamento, background sociale, educazione, professione, esperienze passate, stili caratteriali) classificandoli in maniera sistematica attraverso criteri comuni e comparabili in maniera interdisciplinare.
Tale evoluzione è molto importante, sia perché fornisce una chiarezza terminologica, sia perché propone di allargare il campo di osservazione e di azione, dalla disabilità alla persona.

Troppo spesso si tende infatti ad identificare una persona portatrice di una menomazione con la menomazione stessa, quasi come se essa fosse talmente pervasiva e connotante, da rendere “invisibile” tutte le altre caratteristiche della persona, i suoi gusti, le sue attitudini, le sue potenzialità, la sua identità, quasi fosse interamente costruita intorno alla menomazione. Forse questo atteggiamento è alla base delle vere e proprie barriere che le persone con disabilità sperimentano nella loro quotidianità e che sono legate agli atteggiamenti della famiglia e della società nei loro confronti.

Quanto stupore proviamo quando vediamo in televisione un atleta senza gambe che corre con delle protesi, una ballerina senza braccia, un cantante cieco, un attore affetto da sindrome di Down?

Quando parliamo di barriere ci vengono subito in mente gli ostacoli di tipo architettonico come le scale per che si sposta con la sedia a rotelle o i semafori senza segnalazione sonora per un cieco. Ma per barriere intendiamo anche quelle psicologiche, legate cioè alle reazioni e al grado di accettazione dell’ambiente di fronte alla disabilità e alle possibilità di sviluppo e che questo offre.

Il livello di handicap non è diretta conseguenza della menomazione iniziale: a parità di danno di base ogni soggetto può vivere diversamente la propria condizione, a seconda del contesto storico e culturale in cui nasce, a seconda delle dinamiche familiari in cui è immerso, delle richieste ambientali cui è sottoposto, della condizione socio-economica ecc.
Lo sviluppo di un bambino che nasce con una menomazione è esposto ad una quantità maggiore di rischi rispetto ad un normodotato, per questo sono molto importanti l’informazione e la precocità degli interventi di natura psicologica, sociale, riabilitativa, educativa e anche e soprattutto che questi siano concepiti pensando all’intera famiglia e non solo alla persona portatrice della disabilità. Tra gli obiettivi di ogni intervento, quello di ridurre il più possibile il grado di handicap e di far leva sulle risorse, sulle parti sane e le capacità residue, di offrire possibilità di sviluppo e crescita personale alla persona nella sua globalità affinché possa costruire la propria identità non solo sulla sua disabilità, ma integrando la stessa in una costellazione ben più ampia di elementi costitutivi.

Integrazione scolastica
A proposito di sviluppo e costruzione dell’identità, un ruolo fondamentale è senz’altro rivestito dal sistema scolastico: l’inclusione scolastica degli alunni disabili è comunemente considerata fondamentale per una loro effettiva inclusione sociale e per favorire uno sviluppo della personalità il più completo e armonico possibile.
Riferendosi al passato recente riguardante il sistema scolastico italiano, si può partire dalla Riforma Gentile del 1923, che prevedeva l’educazione separata: istituti specializzati che fornivano personale specificatamente formato, sussidi didattici adeguati e la possibilità di confrontarsi continuamente con altri ragazzi affetti dalla stessa minorazione. Il rovescio della medaglia era costituito dallo sradicamento del bambino dal suo ambiente familiare e sociale e dalla mancanza di confronto con i coetanei normodotati. (Baldeschi, 2004).
Nel 1976, la legge 360, dà agli alunni disabili la possibilità di scegliere la scuola speciale o la scuola comune.
Con la 517/77 si sancisce il principio dell’integrazione nella scuola ordinaria, di tutti i bambini in difficoltà, fin dalla scuola materna e si dispongono interventi concreti per l’integrazione nella scuola dell’obbligo.
La sentenza n. 215/87 della Corte Costituzionale estende il diritto di integrazione dalla scuola dell’obbligo alle scuole di ogni ordine e grado, ma probabilmente la svolta maggiormente significativa avviene nel 1992 con la Legge-quadro sull’Handicap n. 104: l’integrazione è finalizzata alla crescita degli alunni in autonomia sotto i profili degli apprendimenti, utili per l’integrazione sociale, della comunicazione interpersonale, della socializzazione, degli scambi relazionali e dell’accettazione. Si stabiliscono nuovi e concreti strumenti, la diagnosi funzionale (redatta dall’équipe multidisciplinare dell’A.S.L., che considera l’individuo nel suo contesto, ne sottolinea non solo i danni ma le potenzialità, suggerisce tecniche di intervento ed è dinamica, soggetta dunque a revisioni periodiche), gli accordi di programma, il Gruppo di Lavoro Interistituzionale Provinciale (GLIP), composto da docenti, operatori dei servizi sociali e genitori, incaricato di programmare le attività idonee all’integrazione del bambino. Il gruppo di lavoro elabora il Piano Educativo Individualizzato (PEI), documento contenente gli obiettivi scolastici che si vogliono perseguire e gli strumenti che verranno impiegati: esso rappresenta il tentativo di offrire una risposta valida ai bisogni educativi speciali del bambino disabile.
Altro strumento fondamentale per il processo integrativo è rappresentato dal Profilo Dinamico Funzionale (PDF), la cui redazione deve comprendere, oltre alla descrizione e all’osservazione del comportamento dell’alunno, l’insieme delle dinamiche interattive tra l’alunno disabile e l’intero ambito scolastico. Infatti il profilo dinamico funzionale ha come scopo prioritario la focalizzazione delle situazioni di handicap che vengono generate dall’inadeguatezza dell’ambiente alla presenza del disabile. L’Italia è tra i pochi paesi a prevedere percorsi ordinari pubblici per tutti gli alunni. (Pavone, 2004). Ai fini di una effettiva integrazione scolastica, ben diversa del mero “inserimento”, è fondamentale un rapporto collaborativo tra scuola, sistema socio-sanitario e, soprattutto, famiglia.

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